Medicina del territorio: serve una riforma

Da anni viene da più parti invocata una riforma della medicina del territorio e la pandemia ha reso di fatto più impellente la necessità di un rinnovamento.

Il PNRR sembra offrire le possibilità economiche perché questo si possa finalmente compiere, per cui da mesi siamo in attesa che qualcosa di innovativo segni l’inizio del cambiamento.

Riesce però strano vedere positivo un cambiamento che nelle Case di Comunità, da mesi presentate come l’elemento di rilancio della medicina territoriale, prevede la presenza dei medici di famiglia per 2 ore alla settimana. Si secondo le ultime bozze di riforma sui cui sta lavorando Agenas, le ore sarebbero due.

E’ chiaro che chiunque abbia a cuore l’assistenza di base, non può pensare che un “ammasso” di medici che si alternano con turnazioni di due ore alla settimana possa dare una svolta significativa alla medicina territoriale.

Fatico a comprendere come sia minimamente pensabile una simile organizzazione. Il medico di famiglia sa cosa andrà a fare in due ore in una casa di comunità?

Proviamo per esempi: Una casa di comunità per 40.000 abitanti vuol dire per esempio che nella nostra realtà con gli standard attuali (1 medico ogni 1500 assistiti) stiamo parlando di 33 medici di famiglia (ma probabile anche meno visto la carenza e l’aumento dei massimali già in atto in molti posti) che devono dare 2 ore del loro tempo settimanale alla casa di comunità. Quindi circa 66 ore settimanali.

Ammesso che ci siano 33 medici, con due ore settimanali si riesce a malapena a riempire i turni dalle 8 alle 20 dal lunedì al venerdì e al sabato mattina fino alle 14 con un solo medico a turno. Alla faccia dei tanti bei progetti di case di comunità con più medici che lavorano insieme in equipe, si confrontano tra loro e con gli specialisti, si prendono carico dei malati cronici, coordinando con gli infermieri l’assistenza domiciliare e molto altro.

Non è chiaro poi perché ad ogni casa di comunità saranno collegati 10-15 ambulatori con 10-20 medici afferenti e in che cosa consista questo collegamento previsto per alcuni e non per altri.

Molto più rilevante è invece la presenza del personale infermieristico (ammesso che si trovino 20-30 mila infermieri disponibili!) facendo pensare che ci sia l’idea di far “shiftare” buona parte dell’assistenza clinica dai medici agli infermieri come avviene nei modelli anglosassoni.

Il personale amministrativo è decisamente sotto stimato: da 5 a 8 unità per casa di comunità. Dovendo garantire una apertura di 12 ore al giorno vuol dire che ci saranno 3-4 persone al mattino e altrettante al pomeriggio per rispondere alle richieste e a fare da filtro a una popolazione di 40.000 persone.

E’ ovvio che è un numero del tutto inadeguato per far fronte a tutta l’enorme massa di richieste che ogni giorno arrivano ai medici di famiglia.
Difficile pensare che le case di comunità aiuteranno a risolvere i tanti conflitti e contenziosi che avvengono oggi negli studi dei medici di famiglia. Per come sono pensate esse possono ambire al massimo a diventare un punto di primo intervento dove far accedere i codici bianchi.

In questo caso è lecito chiedersi:

  • Ha senso investire cosi tanti soldi in tali strutture (il Pnrr prevede 2 mld per la sola loro costruzione)?
  • Ha senso collocarle nelle zone più popolose servite presumibilmente anche da un ospedale o peggio ancora al posto di un ospedale.
  • È questa la riforma del territorio che cambierà la medicina territoriale?

Ben altro ci aspettavamo da una riforma della medicina del territorio.

Che tristezza quando pur avendo i soldi a disposizione non si ha il coraggio di riformare veramente.
Questa è non solo una occasione sprecata ma anche, temo, l’ultima chiamata per un cambiamento che la medicina del territorio probabilmente è destinata ancora una volta a mancare.

Secondo il 55° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2021 “il 94% della popolazione ritiene indispensabile avere sul territorio strutture sanitarie di prossimità, con medici di medicina generale, specialisti e infermieri cui potersi rivolgere sempre”, non ritiene che le Case della Comunità previste dal PNRR potranno rispondere a tale domanda, essendo il concetto di comunità e, pertanto, di prossimità, estremamente variabile, in relazione all’esperienza individuale del cittadino (condominio, quartiere, cittadina, paese…), necessitando quindi di un modello flessibile e diffuso che solo l’attuale rete degli studi dei medici di medicina generale, anche attraverso il proprio personale di studio, sanitario e non, può garantire.

La pandemia burocratica, rispetto alla pandemia sanitaria ha delle chiare responsabilità.

Porta Soprana - Il Blog di Fulvio Briano - Passato(al)Futuro - Case di Comunità