Quella che si è letta in questi giorni, è solo come incipit la storia di un ragazzo di 18 anni che muore schiacciato da una trave d’acciaio.
Nel mezzo, soprattutto sui social media, ci sono tutti i flame del caso “è stata l’alternanza scuola lavoro”, “non è l’alternanza scuola-lavoro, si chiama in un altro modo”. E così via.
L’epilogo spetterà alla giustizia. Il dolore quello è dei genitori, familiari e amici del ragazzo, ed è infinitamente intoccabile.
A noi forse spetterebbero due cose: non smettere di parlare e pretendere sicurezza e smettere di additare come “sfaticati, sdraiati, coccolati, viziati” … i nostri ragazzi, proprio noi adulti oggi figli e figlie del boom, quando soldi e risorse sembravano infiniti: così infiniti che il lavoro c’era. C’erano opportunità, strade su cui camminare, anche a fatica, c’erano ancora soldi. Potevamo permetterci il lusso di non laurearci, almeno alcuni di noi, per poter seguire tutte le giravolte che ci avrebbero concesso di acquisire esperienza, e di avvalerci di quell’esperienza. Il lavoro si trovava. Potevamo addirittura avere illusioni.
Lorenzo frequentava un percorso di IeFp (Istruzione e Formazione professionale).
L’alternanza scuola-lavoro è uno strumento diffuso in tutti i Paesi industrializzati. In Italia fu introdotta nel 2003 in modo facoltativo. Nel 2015 divenne invece vincolante dei percorsi di istruzione. Nel 2017 viene integrata con la carta dei diritti e dei doveri degli studenti in alternanza scuola-lavoro che porta ad applicare le norme del testo sulla sicurezza 81/2008. A settembre 2019 il governo ne dimezza le ore e la ribattezza Pcto.
Il caso drammatico avvenuto, non deve sporcare l’utilità o la bellezza di questi strumenti che non nascono con la finalità di un precoce avviamento al lavoro, ma come una modalità complementare e integrativa dei tradizionali percorsi curriculari di tutti gli indirizzi di studio, in primis dei tecnici e professionali, e poi anche dei licei, sulla scorta di una visione metodologico-didattico, di una formazione scolastica incentrata non più e non solo sulla centralità della didattica trasmissiva, ma di una didattica tesa a valorizzare dinamiche di apprendimento di tipo cooperativo, laboratoriale, dell’imparare facendo, in contesti formali, informali e non formali di apprendimento al fine di «… favorire l’orientamento dei giovani, valorizzarne le vocazioni personali, gli interessi e gli stili di apprendimento individuali».
Il percorso didattico viene individuato dalla scuola non dall’azienda. Spetta ai docenti costruire percorsi di qualità e verificare che gli ambienti ospitanti siano idonei. Ovviamente un’azienda seria tiene uno studente (e un lavoratore) alla larga da qualsiasi rischio.
Le norme in materia di sicurezza che equiparano gli studenti in alternanza ai lavoratori già ci sono. La questione non riguarda né i percorsi duali né l’alternanza. La vera questione è la sicurezza. Anche un morto sul lavoro all’anno è indecente. Sulla sicurezza abbiamo responsabilità diffuse.
Secondo l’Inail nel 1960 avevamo 10 morti al giorno, tra il 1971 e il 1980 sono stati registrati in media 2.976 decessi sul lavoro all’anno (8,1 al giorno), mentre tra il 1981 e il 1990 la media giornaliera è scesa a 5,7.
Il numero ha continuato a calare anche nel decennio 1991-2000, raggiungendo una media di 4,1 al giorno. Tra il 2001 e il 2010 si scende a 3,6 al giorno e nel periodo 2011-2020 si arriva a 3,5: 1.283 infortuni con esito mortale all’anno.
Il tema vero è che, nonostante due interventi legislativi corposi come la 626/96 e la 81/2008, da 30 anni non riusciamo ad abbassare drasticamente questi dati come si fece negli anni ’70 e poi ’90.
Numeri che ci fan capire che buone leggi e indignazione non bastano.
Bisogna ascoltare chi ha i piedi dentro alla melma, il resto è spesso il solito bla bla bla di chi pontifica dalla sua zona di comfort.