La guerra di genere …. deve essere per forza una guerra?

“Ai convegni, le mie relazioni avevano grande successo. Quasi sempre ero l’unica donna. La cosa, anziché intimorirmi, mi divertiva. Mi divertiva sentire gli altri relatori iniziare il loro intervento dicendo “lady and gentlemen”, con un inchino verso di me, l’unica lady, la sola donna della conferenza. A volte si creavano malintesi buffi. Come quella volta che una signora a un convegno mi avvicinò: “È qui con suo marito?” chiese convinta che fossi la moglie di uno dei relatori-scienziati. “Sono io mio marito” risposi divertita, nel mio inglese che conservava l’accento italiano. Lei scosse la testa convinta che non capissi l’inglese e tanto meno che lo sapessi parlare.”
(Rita Levi Montalcini)

Quando si definisce una persona in modo negativo non per quello che fa ma per quello che è si costruisce un’idea di società in cui esiste una graduatoria di dignità tra gli esseri umani.

“Houston Abbiamo un problema”…
Già per molti motivi..

Il primo indubbiamente la guerra di genere, si continua infatti ad inciampare sulle mine del sessismo lasciate dal coriaceo retaggio culturale.
Poi la guerra dei ruoli, quelli tra uomini e donne e quelle tra “tipi di donne”.

Il pendolo oscilla ancora, e i punti che tocca sembrano essere sempre e solo due: l’emancipata e la madre, la pornofila e la moralista, l’escort e la femminista che la insegue per redimerla (e già che c’è le copre le tette). Due modelli: invece di dieci, cento, miliardi. La rappresentazione delle donne non riesce a essere prismatica. È sempre, e solo, a due facce. Tanto per gli uomini, quanto purtroppo tra donne.

Eppure basterebbe cedere lo scettro, per difficile che sia. Gli uomini dovrebbero smettere di sentirsi gli unici che possono raggiungere la posizioni Alfa (che Cleopatra o Elisabetta I d’Inghilterra insegnano), e tutti riaffermare, con forza, che non esiste un solo modo di essere donna, partendo dall’ essere più solidali e sentendosi donne per affermare insieme all’uomo e con altre nonne i diritti essenziali.

Bisognerebbe smettere di considerare la donna con il grembiule la spia dell’antifemminismo, e la donna che lavora la massaia e la madre più incapace.

E per quanto apparentemente nascosto, dovremmo abolire definitivamente il sottile disprezzo verso le infertili. Si dice ancora “non è stata capace” di una donna che non riesce ad avere figli. Capace, abile. Come se dipendesse dal talento.

E di contro occorrerebbe che le madri smettessero di considerarsi in diritto di avere parola su tutto in quanto tali, come se partorire rendesse, di per sé, atte alla comprensione delle leggi dell’universo.

Che la parola dolore e la parola sacrificio non si coniugano automaticamente e ugualmente, per tutte le donne del mondo.

La maternità non può essere un nodo, nè quando bisogna contrattarla con il datore di lavoro, con il compagno, con se stesse, nè quando qualcuno la disegna come trionfante e apparentemente esclusiva.

Non è necessario essere madri per essere donne, non è obbligatorio non essere lavoratrici per essere madri, e diciamolo non è necessario diventare madri per poter essere felici.

Bisognerebbe, ed è bene dirlo e ridirlo, che ogni donna e uomo potessero considerare i propri gesti e le proprie passioni non come aderenti a un modello, ma come scelta. Bisognerebbe che fossero, quelle donne e quegli uomini, liberi dalle costrizioni e dalle fazioni.

Bisognerebbe che nessuno si sentisse impotente, ne tanto meno facesse sentire l’altro tale, solo perché del sesso opposto, o per una forma fisica, o per un paio di ballerine o di tacchi a spillo.

Esisteva una bellissima espressione, esiste ancora, è “donne e uomini di buona volontà” … non serve altro. Chi prima può, mette su la pentola così intanto bolle, poi insieme ci sediamo a tavola e condividiamo la giornata (lunga per tutti) e anche i talenti. Che magari l’uomo sforna anatre all’arancia sublimi e la donna è un’ottima ministra non solo delle pari opportunità.